L’accelerazione del prodotto interno lordo lucano nel 2015 evidenziata dal recente rapporto Svimez rischia di offuscare la reale situazione economica e sociale della nostra regione che continua a scontare la coda lunga della crisi. La stessa Svimez sottolinea che, a fronte della ripresa economica, il 60 per cento di individui che vivono in famiglie giovani è a rischio povertà in tutto il Mezzogiorno. Allo stesso tempo sappiamo che il 78 per cento dei pensionati lucani percepisce un’indennità inferiore di un terzo alla pensione minima. Nelle scorse settimane, inoltre, l’arcivescovo di Potenza, Mons. Salvatore Ligorio, ha dichiarato che nel solo capoluogo di regione la chiesa assiste qualcosa come 1.400 indigenti.
Le notizie allora sono due: è vero che il Sud e la Basilicata in particolare hanno ripreso a marciare dopo gli anni drammatici della recessione e della stagnazione, ma è altrettanto vero – e i dati confermano questa tendenza – che la crescita attuale si distribuisce in modo diseguale sulla società lucana, contribuendo così ad allargare i divari tra ceti sociali e tra territori. L’incremento delle disuguaglianze sociali è un trend peraltro comune a tutte le economie occidentali e pone seri problemi anche alla tenuta democratica, come dimostra la crescita dei populismi sia in Europa che oltre Atlantico e delle opzioni politiche che propongono il ritorno alle economie chiuse come risposta protezionistica agli effetti che una globalizzazione poco regolamentata ha determinato su interi settori industriali.
La nostra regione è tutta dentro questo scenario mondiale come dimostrano da un lato lo sfacelo del suo tessuto manifatturiero – cresciamo sì ma solo grazie al traino di Fca – dall’altro la platea di espulsi dai cicli produttivi che oggi costituiscono una delle più impegnative emergenze sociali con le quali siamo chiamati a misurarci. La risposta, dunque, non può che avvenire su un doppio terreno: sostenere le fasce sociali più fragili con interventi puntuali orientati al reinserimento occupazionale; aiutare le piccole e medie imprese locali a riposizionarsi dentro il mutato scenario competitivo mondiale.
Su entrambi questi fronti le risposte delle istituzioni locali e nazionali sono state finora parziali ma soprattutto lente. Prendiamo il caso emblematico del reddito minimo di inserimento. A due anni dal suo concepimento, fortemente voluto da tutto il sindacato confederale, una misura nata per affrontare la nottata della crisi sociale e per garantire un minimo sostegno al reddito ai poveri e ai agli ex lavoratori che hanno perso il diritto alla mobilità in deroga, ebbene questa misura non ha ancora dispiegato i suoi effetti a causa di pastoie burocratiche e del mancato trasferimento da parte del governo nazionale dei fondi rivenienti dalla ex carta idrocarburi.
Solo grazie alla grande prova di forza e compattezza messa in campo da Cgil, Cisl e Uil in occasione della marcia dei 10 mila per il lavoro si è potuto accelerare sul reddito minimo di inserimento con lo sblocco dei tirocini formativi di inclusione che proprio in queste settimane stanno interessando circa 1.500 persone, tra ex mobilità in deroga (800) ed ex Copes (700). Siamo però ancora ai prodromi di un programma che senza le risorse della ormai dismessa carta carburante rischia di nuovo di impantanarsi. Giova ricordare che le risorse in questione, derivanti dal 3 per cento di royalties aggiuntive, pari a circa 140 milioni di euro, sono soldi dei lucani per i lucani. Lo sblocco di queste risorse, dunque, è prima di tutto un dovere morale verso la Basilicata.
Sappiamo anche, però, che il reddito minimo di inserimento è solo il primo tempo di una strategia più complessiva che deve porre al centro dell’azione amministrativa della Regione l’occupabilità delle persone: di chi ha perso il lavoro e non ha i requisiti per la pensione e dei tanti troppi giovani lucani che ambiscono a coltivare i propri sogni e a mettere a frutto i propri saperi nella propria terra e che oggi hanno come unica opportunità quella di andare ad ingrossare le fila dei cervelli fuga. Proprio lo spopolamento delle aree deboli è il grande male non curato del Sud. Non si tratta a mio avviso di ripercorrere le esperienze del passato, ma di immaginare una visione di lungo periodo per fare del Mezzogiorno la locomotiva di un nuovo modello di sviluppo fondato sulla valorizzazione del suo capitale umano e delle sue risorse culturali e ambientali. Perché senza un Sud forte e protagonista la crescita nazionale sarà debole e sempre in balia dell’instabilità internazionale.
Nino Falotico